Io non posso entrare...

Io non posso entrare.

La figura del cane nell’arte, nella religione e nella mitologia.

 

Oggi i cani domestici sono numerosi e onnipresenti praticamente in tutto il mondo. Una stima approssimativa del loro numero globale si avvicina ai quattrocento milioni di individui. Se pensiamo che i lupi, antichi progenitori dei cani, sono approssimativamente quattrocentomila, questo significa che i cani, biologicamente parlando, hanno centrato l’obiettivo. Il cane domestico riesce a svilupparsi mediante nuclei fondatori ridotti, colonizzando ogni nicchia ecologica possibile fino a raggiungere un equilibrio con l’ambiente. Tendenzialmente il loro numero e la loro distribuzione sono oggi piuttosto costanti e questo, molto probabilmente, grazie allo stabilizzarsi della popolazione umana. La relazione funzionale aiuta a capire quale sia il motivo che porta una persona a possedere un cane (caccia, lavoro, …) mentre, non è così immediato stabilire quale sia la relazione simbiotica tra umani e animali da compagnia. I cani di grossa taglia hanno maggiore impatto estetico, maggiore presenza ed esaltano quindi la percezione che i proprietari hanno di loro stessi. Studi confermano come molti disabili, accompagnati da un cane addestrato, siano più propensi a muoversi tra la gente. Il cane permette loro di intraprendere attività che altrimenti eviterebbero. I non vedenti spesso richiedono che il cane guida sia un Pastore Tedesco, perché la razza dà loro un senso di protezione oltre all’assistenza. Anche se non c’è la più remota possibilità che uno di questi cani possa affrontare un malintenzionato, la semplice presenza mette il disabile in condizione di uscire di casa con maggiore serenità. Sono molte le persone che scelgono determinate razze da tenere in casa o con cui fare jogging perché credono che, in caso di guai, le proteggerebbero. E se si sentono protette, allora il cane deve essere considerato un beneficio. Agli occhi di un ecologo, il problema sta nel bilanciare l’equazione. Qualunque sia il vantaggio individuale, questo deve essere bilanciato con i costi che riversa sull’individuo e sulla società. Parimenti, dal punto di vista del cane, pur avendo un costo per la popolazione umana, dal punto di vista biologico, l’animale non ci guadagna dalla sua “associazione casalinga” con l’uomo. Infatti, il modo in cui l’uomo dispone dei cani potrebbe condannarli a rimanere intrappolati in quel sistema. L’analisi dei benefici è riportata quasi esclusivamente in termini umani. Il fatto che i cani possano rappresentare un beneficio per le persone però, non significa che le persone siano un beneficio per i cani. Il fatto che i cani possano essere trasformati in “perfetti” animali da compagnia, non significa che lo si debba fare. Il fatto che abbiano nature sociali, docili e adattabili, non significa che possiamo sfruttarli impunemente. Il fatto che abbiano forme infinitamente malleabili, non ci dà il diritto di selezionare deformità che ci piacciono o che ci sono utili.

Vedremo come solo di recente ci si pongano interrogativi sulle modalità con cui l’uomo si rapporta e seleziona i cani e le loro caratteristiche. Analizzando la figura del cane nella mitologia, nella religione e nell’arte, vedremo come il suo ruolo sia stato, fino ad un passato non troppo prossimo, quasi esclusivamente a vantaggio dell’uomo e a discapito dell’animale. Figura utilizzata per caratterizzare, esplicitare, raccontare, strumentalizzare e simboleggiare aspetti, vizi e virtù dell’uomo.

Il presente scritto non affronta quindi la storia dell’evoluzione e della domesticazione del cane ma alcuni degli aspetti legati alla percezione umana dell’animale cane e l’uso del suo simbolismo. Non si ha la pretesa di essere esaustivi ma il solo intento di porre l’attenzione su alcuni aspetti di grande interesse sui quali raramente ci si sofferma ed interroga.

 

Il cane nella mitologia.

Il cane compare nella mitologia classica con significati diversi. L’incontro tra Ulisse e il suo cane Argo, unico a riconoscere l’eroe di ritorno da un’assenza ventennale, è il racconto mitico per antonomasia che celebra la fedeltà del cane. Analizzando la figura del cane nel mito classico, riusciamo ad ottenere una chiave profonda per comprendere noi stessi. La lealtà e la fedeltà ci mostrano un modello di devozione e servizio libero dalle complessità e dalle ambivalenze proprie delle relazioni umane. Il cane ci mette di fronte al contrasto fra innocenza e altruismo, virtù tipiche della lealtà del cane, e il carico di colpe che si portano addosso gli uomini come risultato dello sviluppo dell’intelligenza e dei sentimenti. Ritroviamo il tema della fedeltà del cane nel mito di Mera, cane di Icaro, trasformato da Dioniso nella costellazione del Cane e Procione. La caccia ed il rapporto tra padroni e cani si ritrovano nel mito di Orione; di Atteone tramutato da Artemide (Dea della caccia) in cervo e sbranato dai suoi cani; di Leucone aggredita e dilaniata dai cani del marito. Lelapo, cane di Cefalo è così descritto da Ovidio: “non spicca più veloce il volo una lancia, un proiettile scagliato dal vortice di una fionda, una freccia sottile che scocca dall’arco di Gortina”.

In contrapposizione con la descrizione di animale fedele si ha la sua rappresentazione nella funzione mitica più importante ed universalmente documentata di psicopompo. Figura centrale di molte mitologie e religioni antiche, divinità in senso proprio, poiché non giudica gli uomini ma si limita a traghettarli nel mondo ultraterreno.

In tutte le mitologie è sempre associato agli inferi, al mondo sotterraneo, al regno dell'invisibile. La sua funzione di "guardiano di soglia" richiama l'ambivalenza del simbolo. Da un lato, signore del regno delle ombre, carnivoro (si nutre spesso di carogne), dotato di forte istintualità; dall'altro, per la sua familiarità con l'invisibile, è in grado di condurre e proteggere l'anima umana durante il viaggio nel mondo dell'al di là. Come lo sciacallo, la iena o l'avvoltoio, figure lugubri che si nutrono di cadaveri, è un necrofago. Il mito di Ecate nel suo ruolo di psicopompo, è legato alla figura dei cani latranti che ne preannunciano l’arrivo. Presso i Persiani , al cane veniva affidato il compito di far sparire i morti ed alcune popolazioni addirittura, li allevava per questo scopo. Nella mitologia il cane conserva a lungo il suo carattere di aggressività.

 

Cerbero, custode del regno di Ade nella mitologia greca e romana, è creatura con il corpo di cane, tricefalo con coda di serpente. Il suo compito è quello di accogliere l’arrivo delle anime dei defunti e di impedire loro di tornare indietro. Compare come ultima Fatica di Ercole ed è figura presente in tutti i racconti di eroi che scendono nell’Ade. Dante ne riprende il mito in epoca medioevale ponendolo a guardia dei golosi.

Nella cultura Maya, i cani appaiono nelle scene dell'oltretomba, dipinte sulle ceramiche del periodo classico, intenti a trasportare i morti oltre un corso d’acqua. In molte culture, in un passato non troppo lontano, venivano poste ai piedi delle tombe statue raffiguranti il cane con ambivalente significato di fedeltà incondizionata verso l'uomo e guida spirituale nel momento del passaggio. I ritrovamenti di tombe contenenti scheletri di uomini e di cani, descritti da alcuni come straordinario esempio di forma di affezione dell’uomo verso il suo fedele compagno, devono verosimilmente essere interpretati come atto egoistico dove il cane veniva ucciso e sepolto assieme al defunto al fine di guidarlo nel viaggio verso il mondo dei morti.

 

Nell’antico Egitto, il cane compare nell’iconografia del dio Anubi, rappresentato con corpo umano e testa di canide. Anubi, figlio di Osiride e Nephtis, per soccorrere il padre ucciso e tagliato a pezzi dal fratello Seth, ne pratica per la prima volta l’imbalsamazione. Anubi, detto l'Aggiustatore d'Ossa per la sua particolarità di rovistare tra i mucchi d'ossa, ha contemporaneamente la funzione di ricomporre l'unità. Mentre Iside sorella e sposa di Osiride cerca i pezzi di Osiride con l'aiuto dei suoi cani, Anubi l'aiuta a ricostruirne il corpo. Per questa ragione egli è guardiano della soglia che separa i morti dai vivi. Svolge anche funzioni di psicopompo poiché ha il compito di accompagnare le anime dei defunti fino al cospetto di Osiride, dove ha luogo la cerimonia della pesatura del cuore. In un piatto della bilancia viene posta la piuma che rappresenta la dea della Giustizia Maat e nell’altro il cuore del defunto: soltanto se i piatti rimangono in equilibrio, al defunto è concesso l’ingresso alla Duat, il Mondo Capovolto di cui Osiride è Signore e dove potrà continuare a vivere in eterno. Se il peso del cuore fa scendere il piatto della bilancia, il defunto è lasciato in preda a mostruose creature che l’attendono per divorarlo. E’ Anubi che sorveglia i piatti della bilancia e riferisce ad Osiride il responso. Ancor oggi la bilancia che simboleggia l’equità e l’imparzialità della Giustizia, si rifà a questo mito.

Ritroviamo il cane come guida al mondo degli spiriti nella cerimonia della Danza degli Spettri, che i Lakota fanno per connettersi agli Antenati ed averne consigli che riguardano il tempo presente. Prima dell'inizio del rituale, viene sacrificato un cane, le cui carni vengono poi bollite e date in pasto a tutti i partecipanti alla cerimonia: allo spirito del cane ingerito è infatti demandato il ruolo di guida nel Regno delle Ombre e al tempo stesso di protettore contro gli Spiriti maligni.

Il filologo tedesco Wilhelm Heinrich Roescher, esaminò il ruolo mitico di guida e custode che le figure del cane e del lupo svolgevano nel percorso dell’anima verso mondo dei morti. Attraverso lo studio degli archetipi mitologici, si tentò di esplicitare ciò che turba l’equilibrio psichico del genere umano negli incubi (licantropia e simili) e nelle patologie moderne. “Gli Dei, scacciati dalle nostre religioni, tornano nelle nostre malattie, nei nostri sintomi, proprio perché rimossi” (Jung). “Il rimosso torna sempre” (Freud).

 

Il cane nella religione.

La sua vicinanza all'uomo (che il cane vede come suo Dio) nel percorso alla ricerca di Dio, ne fa un protagonista importante dei messaggi onirici in momenti cruciali del percorso stesso.

L’uomo primitivo viveva con la costante paura degli animali selvatici e dato che non poteva difendersi facilmente da loro, li venerava come divinità nella speranza di ingraziarseli a tal punto che alcuni culti prescrivevano di tenere ed allevare animali domestici nei templi.

Per quanto riguarda l’effetto svolto in tempi meno recenti dalle religioni, si potrebbe ipotizzare che i monoteismi abbiano semplicemente ratificato l’atteggiamento umano di paura verso gli animali. Così, la responsabilità delle religioni non consisterebbe nell’aver creato una situazione, ma nel non averla impedita.

La Chiesa, nell’occidente cristiano, temendo che fosse ancora identificato con le divinità pagane di cui era stato spesso l’immagine, non vedeva di buon occhio il cane. Tuttavia riservò ad alcuni santi il ruolo di protettori/curatori di questi animali. Oltre a Sant’Uberto, con il compito di curare la rabbia, il cane compare nell’iconografia di alcuni santi come Rocco, Lazzaro ma nel caso di San Domenico si carica di un significato metaforico. La madre del santo, secondo tradizione diffusa, avrebbe sognato di dare alla luce un cane bianco e nero recante una fiaccola che incendiava il mondo. Il potente significato simbolico del cane con la torcia accesa, bianco e nero come l’abito dei Predicatori, si esplicita nell’identificare il fuoco della torcia con la parola ardente dei Predicatori e i latrati dei cani all’eloquenza con la quale i figli spirituali del santo seppero difendere la chiesa dall’eresia scacciando i lupi dalle greggi.

Recentemente si è molto discusso sull’invito ai fedeli ad occuparsi più dei “cristiani” che degli animali, in particolare dei cani, come se le due cose fossero, per principio, in opposizione. “Prima i cristiani poi gli animali!”, sostenendo che “ci sarà pure una ragione per la quale è stato proibito di somministrare i sacramenti a coloro che non appartengono al genere umano”. La ragione di questo divieto, creato dalla Chiesa e quindi dall’uomo, affonda le sue radici nel mito della creazione. Questa infatti, afferma una differenza essenziale tra Dio, l’uomo e la natura (parola che indica, in generale, il non-uomo). Questa suddivisione è divenuta assai problematica nell’età moderna, se non altro per le conseguenze della teoria dell’evoluzione (che ha ricondotto l’uomo nel contesto dinamico della natura, contestandone la creazione dal nulla) e per gli sviluppi del pensiero filosofico. La ragione che ha spinto, spesso ancora oggi, la Chiesa a considerare gli animali come meccanici, senza raziocinio, senza una coscienza e quindi in preda al solo istinto, è la volontà dell’apparato religioso di imporre la supremazia dell’uomo sul creato. Erigere quindi l’uomo ad unico essere pensante, capace di sentimenti e discriminazioni distinguendolo dagli animali considerati privi di queste doti. All’interno di questa nicchia, la Chiesa si è ritagliata e conserva il ruolo di tramite tra Dio e gli uomini mediante l’uso della forza e della paura approfittandosi, incentivandolo, dell’analfabetismo diffuso. Se si riconoscesse che l’uomo non è posizionato sopra al creato ma ne è esso stesso parte, cadrebbe la possibilità di sostenere che i componenti il clero sono unici interpreti e messaggeri in contatto con il divino. Questo ruolo potrebbe parimenti essere attribuito ad altri elementi, animali, vegetali, e di fatto sarebbe incontestabile operando un azzeramento e allineamento dei singoli non consentendo appigli all’imposizione di predominio alcuno. La Chiesa ha quindi scalzato gli altri animali dalla possibilità di culto, ha impedito il diffondersi delle culture, delle credenze e delle divinità pagane ed il cane, animale più diffuso al mondo e indissolubilmente legato ai trascorsi dell’uomo, funge spesso da capro espiatorio.

 

SAINT GUINEFORT - Il santo Levriero.

 

“Questa storia si è svolta di domenica, giorno in cui tutti i Prodi vanno a divertirsi sui prati. Ora, il terreno che il Cavaliere usa per queste tenzoni si trova proprio a lato della sua dimora. Il recinto era ben chiuso, ma le vecchie mura screpolate. La sua condizione gli permetteva di avere tre nutrici accanto al suo bambino, ancora in culla: la prima lo allattava, la seconda gli faceva il bagnetto e la terza lo cambiava e metteva a letto. Il Cavaliere possedeva un Levriero, bello e dolce; eccelleva nella corsa e nessun altro cane inseguiva la selvaggina con tanta destrezza e velocità. Il Cavaliere lo amava come null’altro al mondo. Quella domenica, Egli uscì sul prato con i suoi compagni, armato di scudo, lancia e spada, dovendo partecipare al torneo. La sua sposa si teneva indietro, sul ponte levatoio, per seguire con lo sguardo la tenzone, così come le nutrici, che misero la culla ai piedi del muro e salirono sugli spalti. Mentre i cavalieri cominciavano a duellare tra di loro, un serpente nascosto nelle mura, disturbato dal fracasso della lotta e dalle grida inconsuete degli spettatori, osò uscire dal suo rifugio, strisciò in una crepa del muro e, entrato nel castello, si avvicinò alla culla del bambino. Il Levriero, uscendo da casa, scorse il rettile, impressionante per grandezza e misura, ripugnante e molto velenoso. Egli lo aggredì, mordendolo nel grasso del ventre, ma il serpente chiuse le spire intorno al collo del cane. Per l’angoscia e il dolore del morso, si scrollò violentemente di dosso il serpente, che cadde dietro di lui, vicino alla culla. Il coraggioso animale, rendendosi conto del pericolo che correva il piccolo, si lanciò nuovamente sul serpente, e nella lotta il lettino si rovesciò, senza conseguenze per il bambino, avvolto in una copertina di piume che ne attutì la caduta. Intanto la lotta tra cane e serpente continuava furiosa: il levriero afferrò il corpo del serpente, mentre questi gli mordeva ripetutamente le coste, facendolo urlare di dolore e indietreggiare verso la culla, macchiandola di sangue. Infine, con ardente coraggio, riuscì ad afferrare la testa del serpente e, in preda al furore, staccarla in quattro morsi. Il Levriero, tutto insanguinato e fiaccato dal veleno, rientrò in casa, urlando ed abbaiando forte, travolto da una grande angoscia. Nel pomeriggio, il torneo stava terminando e tutti rientravano alle loro dimore. Le nutrici arrivarono presso la culla, rovesciata e tutta intrisa di sangue. Udendo gli ululati del Levriero, immaginarono che avesse la rabbia e che, nella sua follia, avesse massacrato e forse mangiato il bambino. In preda allo sconforto ed alla paura delle conseguenze della loro distrazione, incominciarono a urlare lamenti, piangere strapparsi i capelli. Nel frattempo sopraggiungeva la Signora, mamma del bambino, attirata da tutto quel fracasso e chiedendone preoccupata il motivo: le femmine risposero che il cane, arrabbiato, aveva ucciso il bambino. La Signora lanciò un grido e svenne. Prima che si riprendesse, il Signore rientrò a cavallo, soddisfatto e di buon umore per la vittoria nel torneo. La sposa gli annunciò allora che il bambino era stato ucciso dal cane arrabbiato. “ La disgrazia è su di noi!”disse il Signore, scendendo da cavallo ed entrando nel maniero. Il Levriero, riconoscendo la voce del padrone, felice per il suo ritorno, nonostante il dolore per le numerose ferite, riuscì a strisciare verso di lui, per festeggiarlo come il solito, alzandosi e mettendogli le zampe anteriori sul petto. Il Signore, fuori di sé dal dolore per la notizia appena ricevuta, estrasse la spada e tagliò la testa al suo cane, poi entrò in casa ed andò vicino alla culla insanguinata. Avvicinandosi, vide il serpente fatto a pezzi e con stupore, il bambino indenne, nascosto sotto il lettino. Allora, chiamò a raduno la sua sposa e tutte le persone presenti nel castello e gli fece vedere il serpente: egli dimostrò come il suo cane avesse combattuto valorosamente per salvare e proteggere il bambino. Commosso per la devozione del cane, indirizzò dei violenti rimproveri alla sposa: “ Tu mi hai fatto uccidere il mio adorato cane per nulla”. In verità mio figlio vive grazie al suo coraggio e al suo sacrificio. Non avrei dovuto ascoltarti, perché mi hai fatto compiere un’azione insensata. “Nessuno mi può castigare come merito, ma mi punirò io stesso per la mia indegnità!” Travolto dal dolore e dal rimorso, scava una tomba per il suo cane, vicino al castello, vi pianta sopra degli alberi. Da quel momento in poi, la sfortuna sembra abbattersi sul Signore, che persi il castello, andato distrutto e i terreni,ridotti a deserto, parte per l’esilio. Da quel momento, i paesani, colpiti dal sacrificio del cane, punito per un atto nobile, iniziarono ad onorarlo come un martire; soprattutto le madri di bambini deboli trasformarono la tomba del santo levriero in luogo di pellegrinaggio, presso la quale depositare ex-voto e chiedere intercessioni.”

 

   

 

Che questa storia sia vera è avvalorato da un manoscritto in latino risalente al 1520 in cui il frate Domenicano, Etienne de Bourbon, che fu uno degli Inquisitori incaricati dalla Chiesa di reprimere le eresie nella Diocesi di Lyon, scrive, in uno dei suoi rapporti:

“Proseguendo le mie indagini contro i sortilegi ed ascoltando le confessioni, molte donne ammisero di aver portato i loro bambini presso la tomba di un santo. Continuando nell’inchiesta, venni a scoprire che il cosiddetto santo era un Cane Levriero, morto nel modo seguente (riportando la storia). I paesani sentendo parlare della nobile condotta del cane, iniziarono a visitare la tomba, onorarlo come un martire, pregare per la sua intercessione, e molti di loro caddero nella seduzione del Demonio, che attraverso questo mezzo, spinse gli uomini all’errore. Noi ci siamo recati in questo paese, abbiamo convocato la popolazione e abbiamo predicato contro questo culto. Noi abbiamo fatto esumare il cane morto, abbattere il bosco sacro, e fatto bruciare gli alberi insieme alle ossa del cane. Noi abbiamo fatto emanare un editto ai Signori di quelle terre che prevede la condanna alla confisca dei beni per tutti coloro che si recheranno per qualsiasi motivo nel luogo della sepoltura.”

Nonostante la censura e la repressione della Chiesa, il culto non è morto, tanto da provocare serio imbarazzo e discussioni teologiche. Si è pertanto cercato di convogliare il culto del santo levriero su quello di un santo umano: San Guinefort. Lo storico francese Jean-Claude Schimtt ha dimostrato nel suo saggio che ancora oggi si possono trovare tracce di culto e pellegrinaggio e ha potuto dimostrare che il santo Levriero è ancora venerato, nonostante la condanna della Chiesa Cattolica, per le sue azioni benefiche sulla salute dei bambini. Questa storia ne riecheggia tante altre simili di devozione animale e ignoranza umana seppur con animali differenti a rivestire i ruoli di martire e di aggressore. Il fatto che nella sua forma originaria il santo fosse rappresentato come un levriero, indica un riconoscimento diffuso che portava a considerare questa razza la quintessenza della devozione canina.

  

La figura del cane nella Bibbia.

Le citazioni della Bibbia che si riferiscono ai cani sono circa una quarantina. Sono per lo più immagini, non sempre di immediata decifrazione, derivate da circostanze storiche determinate. I cani randagi che principalmente si nutrivano di carogne, il più delle volte contaminate da malattie, erano considerati animali impuri e quindi inadatti alla nutrizione umana. In generale la Bibbia riserva alla figura del cane il ruolo di spazzini, di esseri che dilaniano le carni di chi, non meritevole di degna sepoltura a causa della sua condotta o della sua condizione, viene quindi abbandonato al suo destino: “Quelli di Geroboamo che moriranno in città, saranno divorati dai cani; e quelli che moriranno nei campi, saranno divorati dagli uccelli del cielo; poiché il Signore ha parlato” ; “Nello stesso luogo dove i cani hanno leccato il sangue di Nabot, i cani leccheranno anche il tuo”. Le citazioni fungono spesso da parametro per misurare la dignità o il merito delle persone: “Ora servo da zimbello ai più giovani di me, i cui padri non avrei reputato degni di stare fra i cani del mio gregge!” ; “Sono cani ingordi, che non sanno cosa sia l’essere sazi” ; “Fuori i cani, gli stregoni, i fornicatori, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna”. In alcuni passi la figura del cane funge da minaccia, esplicitando il sentire comune dell’epoca nei suoi riguardi : “Io - dice il Signore - manderò contro di loro quattro specie di flagelli: la spada, per ucciderli; i cani, per trascinarli; gli uccelli del cielo e le bestie della terra, per divorarli e per distruggerli” ; “Non date ciò che è santo ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le pestino con le zampe e rivolti contro di voi non vi sbranino”. Spesso raccontano spaccati di vita, abitudini e consuetudini: “Sono forse un cane, ché tu vieni contro di me con il bastone?” e riportano metafore al fine di spiegare comportamenti ritenuti deprecabili : “Lo stolto che ricade nella sua follia, è come il cane che torna al suo vomito” ; “È avvenuto di loro quel che dice con verità il proverbio: «Il cane è tornato al suo vomito», e: «La scrofa lavata è tornata a rotolarsi nel fango»”. Superando la prevalente accezione dispregiativa e quindi il simbolismo attribuito a questi animali, in una visione d’insieme si riconoscono diverse figure di cani: Cani selvatici riuniti in branchi che vivevano fuori città presso i depositi di rifiuti e così feroci che nemici crudeli erano spesso loro paragonati; Cani da caccia di proprietà di persone facoltose e classi dirigenti, espressione di passatempo adatto alla nobiltà; Cani da lavoro, oggi definibili come gli eroi non celebrati del mondo antico. La scena dell'annuncio della nascita di Gesù ai pastori – che sicuramente avevano dei cani, non li menziona. Senza i cani, infatti, portare al pascolo pecore e capre non sarebbe stato possibile e la civiltà sarebbe progredita molto meno in fretta. Cani scelti per la loro capacità di lavorare sotto la supervisione diretta del pastore, per la loro resistenza, non ultima al caldo ed al freddo e per la loro lealtà al pastore ed al suo gregge.

 

La frequente istituzionalizzazione dei sacrifici canini nelle antiche città, oltre che in credenze e tradizioni, trova spesso una spiegazione funzionale dettata da precise esigenze di salute pubblica. Ad esempio, durante i “giorni della canicola”, mesi caldi dell’estate in cui era previsto il picco delle epidemie di rabbia, nelle antiche città greche e cinesi i cani venivano rispettivamente massacrati e smembrati secondo un preciso rituale atto a scongiurare il pericolo di contagio. Il fatto che il profeta Maometto avesse decretato uno sterminio di cani randagi urbani affetti da rabbia, fu usato come pretesto per giustificare, centinaia di anni più tardi, stragi analoghe nella Damasco del quattordicesimo secolo anche se nel frattempo la patologia della rabbia era stata molto meglio compresa. Al contrario, la compassione dimostrata da Maometto nei confronti dei cani e di altri animali in quanto creature divine, passo in secondo piano pur essendo meglio documentata; uno dei tanti esempi di come l’antica parità fra cani e persone sia stata eclissata dal più recente interesse per i rapporti gerarchici. Le storie di massacri urbani di cani, comuni a molte culture, mostrano come i cani randagi, proprio come gli uomini indigenti, siano da molto tempo considerati sintomo di problemi sociali. Nell’Inghilterra del Cinquecento, ad esempio, in ambito ecclesiastico, il “frusta cani” era un impiego vero e proprio. Armato di frusta e pinze da cingere attorno al collo dell’animale consentendo di spostarlo senza doverlo toccare, scacciava i cani facendo loro quello che il picchiatore di mendicanti faceva agli uomini, ovvero inculcava in loro l’ordine ecclesiastico tramite l’uso della forza fisica. Accomunati nel subire la violenza istituzionale, cani sciolti e persone indigenti rimasero di competenza dell’autorità ecclesiastica fino alla fine dell’Ottocento rimpiazzati da polizia e accalappiacani.

 

La figura del cane nel mondo islamico. 

È esistito un periodo alle origini dell’Islam, di probabile derivazione culturale pre-islamica, in cui il cane veniva trattato senza particolari precauzioni. È tuttavia evidente come, mentre la rivelazione del Profeta si attestava nella penisola araba, l’inizio di un mutamento nel giudizio su questo animale venisse condizionato da alcune affermazioni proprio dello stesso Maometto forse al fine di contrastare la libertà di cui i cani godevano fin all’interno dei luoghi sacri. “Allorché un cane ha bevuto nel recipiente di uno di voi, che questi lavi il recipiente sette volte”. Tale ostracismo si sarebbe in breve tramutato in condanna inizialmente di tutti i cani e poi solo di quelli di colore nero considerati incarnazione dello stesso Satana. Al fine di risolvere la evidente contraddizione tra repulsione diffusa verso i cani e necessità della loro presenza nella pratica venatoria, furono divulgate delle specifiche, intorno all’uso del cane, per far fronte ai rischi della sua impurità e preservare il cacciatore. “Se tu lanci i cani addestrati e invochi il nome di Dio, potrai mangiare la selvaggina che catturano come se fosse tua, purché essi non ne abbiano mangiata. Poiché, in questo caso è da ritenere che il cane abbia cacciato per soddisfare se stesso”. Le città erano conosciute per i branchi di cani liberi di girare in gran numero e la piaga del randagismo era ben nota anche nei paesi mussulmani del Nord Africa dove rabbia endemica e branchi di cani erano particolarmente aggressivi. Non ammettendo status giuridico nè vincoli affettivi per cani non impiegati a scopi di utilità, i restanti cani erano destinati alla loro sorte scadendo spesso a quella condizione di stenti che ne ratificava la condanna di impurità. Appare quindi di estremo interesse come il cane, emarginato ed escluso, dovesse paradossalmente trovare nell’Islam il suo riscatto in una realtà mitica e letteraria acquisendo forte valenza simbolica ora su un piano morale, ora su uno trascendente e metafisico, caratteristico di una società dominata dal paradigma religioso. I rigorosi margini che vietavano all’uomo ogni contatto con il cane al di là del suo utilizzo pratico, vennero rotti e attenuati dai famosi racconti del pellegrino e della prostituta che, procurando da bere al cane assetato, riscattano così l’ingombrante peso di una vita di peccati. Nel Corano, un cane appare protagonista di una delle più importanti Sure, quella dei dormienti della Caverna. Un gruppo di sette giovani si rifugia in una caverna al fine di sfuggire alle persecuzioni di un imperatore pagano che vuole costringerli all’idolatria. La novità della rivelazione coranica di questa leggenda, è proprio la presenza di un cane che accompagna i credenti perseguitati, partecipe quindi nel piano divino riservato ai sette ed insieme ad essi divenuto testimonianza vivente, al loro pari, dell’onnipotenza divina. Questi e altri racconti, ebbero l’effetto di rendere il cane, pur in una condizione di infimità agli occhi dei più, presenza ricorrente di numerosi episodi letterari ora volti a sancirne limiti e bassezze, ora a riconoscerne le doti. Il cane diventa momento di confronto della naturale bontà o abiezione degli umani e specchio della loro natura spesso non meno vile di quella attribuita al povero animale. Il testo più importante in questo senso è “Il libro dell’eccellenza dei cani sugli esseri che indossano vestiti” unica opera della letteratura araba antica interamente dedicata al cane e alle sue virtù a confronto delle miserie degli uomini ritratti nei loro istinti peggiori. La qualità letteraria di questi e di altri racconti ed i contenuti ed insegnamenti di prim’ordine, sono capaci di rendere giustizia a un essere senz’altro emarginato nell’Islam recuperando la funzione di fedele compagno dell’uomo. Tuttavia queste prose non vanno spesso oltre la possibilità di incontri casuali, apportatori di aiuto o rivelatori, oltre i quali ciascuno dei due esseri è richiamato al proprio destino secondo il rispettivo ordine biologico. In pochi casi i cani erano effettivamente compagni dell’uomo nella quotidianità, prerogativa questa riservata a membri delle classi più elevate per la relativa libertà di cui essi godevano dalla osservanza degli interdetti religiosi. Dal IX secolo al XV secolo, numerose sono le opere e gli scritti, banco di prova di scrittori e scienziati, che testimoniano le conoscenze sul mondo naturale e animale di un’intera epoca. “Il Libro degli animali”, “il Dizionario degli animali”, “Il libro della caccia e del commercio delle bestie selvagge”, opere scientifiche monumentali a carattere universale che descrivono del cane la natura, il comportamento, il rapporto con l’uomo, le chiavi della sua interpretazione nei sogni, insieme a curiose credenze sulla sua farmacopea e ad una aneddotica condita di salaci amenità in cui spicca gran parte del giudizio negativo che la cultura islamica doveva riservare a questo animale.

Nelle scritture della cultura Islamica, il cane, nel fungere da metro di paragone per le virtù e le nefandezze degli uomini, si fa spesso interlocutore attivo e dialogante, evidenziando l’importanza del suo ruolo nello svolgimento del racconto.

 

Il cane nell’arte.

Compagno dell’uomo da tempi lontani, ad altrettanto lontano risale la presenza del cane nell’arte figurativa. Sin dagli albori della preistoria l’uomo ha rappresentato sulle pareti delle grotte e dei rifugi, gli animali che cacciava accompagnandoli quasi sempre con la raffigurazione di cani intesi come guardiani o ausiliari nella caccia. Anche la cultura egizia ci offre una vasta gamma di rappresentazioni canine: sculture, bassorilievi, affreschi e papiri raffiguranti basenji, molossoidi e levrieroidi.

 

Parimenti, veicolo di scambio per eccellenza, la moneta e il conio comunicano e diffondono immagini come nessun altro mezzo nel mondo antico. Una grande quantità di monete testimonia come l’immagine del cane costituisca presenza costante nell’iconografia romana, a partire dal mito della fondazione: la lupa che allatta Romolo e Remo. Spesso è difficile stabilirne la razza ma sappiamo che i romani impiegavano i cani nella caccia così come li possedevano per affezione oltre che per porli a guardia delle proprietà come testimoniano i mosaici pompeiani recanti “Cave Canem”.

La raffigurazioni di cani da pastore in epoca medioevale, testimonia come la sua funzione primaria di protettore delle greggi, coadiuvò l’uomo nel passaggio da semplice cacciatore a pastore (Giotto, Cavallini, Pisano). Sono i levrieri ad incarnare l’immagine della fedeltà canina nell’iconografia funebre classica nelle prime pitture religiose dell’Occidente medioevale, grazie al riconoscimento di nascita nobile e all’apprezzamento di cui questo cane godeva da temo in Medioriente. In arabo, il saluki o salugi viene chiamato anche el hor, il nobile, come forma distinta da kelb (cane ma anche insulto generico). In Inghilterra, nell’anno 1016, le Forest Laws decretano “Nessuna persona meschina può tenere un levriero” rimanendo in vigore e praticamente immutate per seicento anni. Poiché possedere questo tipo di cane era divenuto un simbolo di potere, ne conseguiva che il levriero godeva a sua volta, per associazione, di uno status sociale elevato rispetto agli altri cani. La razza passa da metodo di classificazione a strumento per stabilire gerarchie fra i cani che finiscono così per rendere visibili i rapporti di potere fra gli uomini. Il levriero, grazie al legame con la nobiltà e la mascolinità, compare nei secoli seguenti nelle rappresentazioni delle famiglie reali europee.

 

Tra il XIV e il XV secolo, nell’epoca del gotico, la necessità di rappresentare con sempre maggior realismo la vita quotidiana, pur circoscritta all’esclusivo mondo delle corti, impone lo studio e una primordiale classificazione delle razze (Studio dei cani - Pisanello). Mastini, volpini, levrieri, sembrano largamente diffusi e compaiono già distintamente nelle loro diverse mansioni: da difesa personale, da compagnia, da caccia. Gli interni borghesi ricostruiti con dovizia di particolari dagli artisti fiamminghi nel XV secolo, portano alla ribalta cani divenuti oramai simboli di fedeltà e dell’intimità domestica che danno un tocco di movimento alla rigorosa fissità della scena. Celebre esempio è il posto di primo piano del griffon terrier de “I coniugi Arnolfini” di Jan Van Eyck. Anche i soggetti sacri assumono, nell’arte fiamminga, carattere meno aulico introducendo oltre a riferimenti ambientali e paesaggistici, anche gli animali domestici ritratti in tavole e tele seppur in contesti simbolici. Testimone di questa simbologia è la contrapposizione della figura del cane e del gatto dove il cane rappresenta spesso la familiarità, l’intimità, la fedeltà, mentre il gatto assume una connotazione simbolica negativa legata alle sue caratteristiche di individualità, al muoversi furtivo, silenzioso, incarnando i tipici delle creature notturne. Non è raro ammirare dipinti raffiguranti scene principali di soggetti intenti in discussioni o atteggiamenti concitati e parimenti trovare nella parte bassa dell’opera cani e gatti che si sfidano e minacciano caratterizzando e supportando simbolicamente la scena. Il piacere del dettaglio minuto non è per il puro godimento degli occhi, bensì con intenti e sottintesi spesso di natura simbolica dove i cani sono portatori di vizi e virtù, di una sorta di realismo camuffato, indicativo di una cultura a sfondo religioso e moralistico che, per parlare ai più, si affida a immagini allegoriche tratte dalla quotidianità.

In epoca rinascimentale, l’acquisizione da parte dei cani di uno status definitivo è sancita dai ritratti ufficiali, dove nobiluomini e nobildonne non rinunciano al prezioso cane da caccia, al grosso mastino, all’agile levriero e al piccolo cane da compagnia. Quest’ultimo, necessariamente sodale di dame e fanciulli, appare sempre con nastrini o collari en pendant con l’abito della padrona o dei padroncini: segno anche di una progressiva trasformazione dell’animale in oggetto prezioso sino a divenire tema di collezione. Passaggio dalla rappresentazione funzionale e delle glorie sul campo (caccia, battaglia) alla sublimazione delle caratteristiche di forza, bellezza, coraggio, protezione, magistralmente impresse e trasferite al proprietario umano mediante la sola presenza del cane nel dipinto. Non c’è raffigurazione sacra o profana, con un minimo di complessità, che non contempli uno o più ritratti di cani. La simbologia viene sviluppata fintanto ad arrivare a ritrarre il cane come presenza centrale nel dipinto, affidandogli ora la guardia della casta padrona, ora a simboleggiare la fedeltà coniugale, la centralità della fede o anche più semplicemente la rappresentazione di uno spaccato di normale vita quotidiana (Tiziano, Allori).

I secoli XVII e XVIII, ovvero i secoli delle grandi corti e degli assolutismi, vedono consolidarsi i ruoli del cane da compagnia e da caccia. I ritratti dei reali e dei nobili esibiscono l’animale oramai status symbol. I cani di piccola taglia, oggetto di desiderio di re e regine e spesso accomunati a ambienti lussuriosi, sono offerti in dono come veri gioielli e a volte diventano emblema di una moda e di una omologazione figurativa e caratteriale di cani e padroni. Vengono loro attribuite funzioni utilitaristiche, in genere legate alla salute e sempre da annoverarsi fra le mode per le dame di lusso: Cuccioletti per signore che si portan via le pulci; una razza minuta di cani è utile come cuscino caldo per dare sollievo dalle indigestioni; tradizioni popolari secondo le quali i cani assorbono le malattie dalle persone, il malocchio, motivi per i quali, nel secolo successivo, i cani vennero torturati e uccisi in quanto famigli delle streghe.

Lo sviluppo simbolico dell’accomunare la figura dei cani randagi a quella della condizione degli uomini indigenti, quale sintomo di problemi sociali, si fa strada anche nell’arte figurativa della prima modernità. In contrapposizione con i nobili cani dei ritratti aristocratici, il cane ordinario ritratto in luoghi pubblici, diventa strumento di critica sociale e culturale. Diviene simbolo dell’uomo della strada. Nel Settecento il ruolo di contorno del cane vagabondo diviene spesso tragico (ritratto come oggetto di abusi e scherno) e a volte ispira innovazione stilistica dell’artista proprio come già successo con le immagini dei cani di razza.

L’Ottocento neoclassico annovera splendidi gruppi scultorei che esaltano la scattante flessuosità dell’anatomia canina e a partire dalla metà del secolo, con impulso dalla scuola inglese, viene incrementata la selezione delle razze e di conseguenza la loro classificazione. Appaiono perciò nei quadri vari tipi di animali da caccia, da compagnia, tutti riprodotti con sempre maggior attenzione al dettaglio naturalistico. Nell’Ottocento e Novecento, tra le classi nobili di Francia e Inghilterra, si affermano attività cinofile e tradizione venatoria e di pari passo si sviluppa l’arte dei ritrattisti animalisti intenti a raffigurare le manifestazioni di coursing dei Grayhounds e le scene di caccia a cavallo.

L’arte contemporanea presenta dinamiche più complesse e le diverse correnti che si susseguono nel corso del Novecento, impongono al soggetto diversi valori semantici. La raffigurazione del cane si adegua diventando ora puro valore formale (presenza di un cane) ora rappresentazione di un valore simbolico (l’attesa, la fedeltà). La pittura e la scultura del XX secolo ha visto a livello mondiale sempre più il cane come protagonista grazie alla diffusione delle razze tra la gente comune e non più come privilegio di pochi eletti. La ritrattistica canina si afferma di pari passo con lo sviluppo delle manifestazioni cinofile come testimoniato dalle grandi collezioni del Kennel Club inglese e americano che raccolgono i ritratti di grandi campioni di lavoro e di bellezza.

L’importanza delle opere, dalle origini ai giorni nostri, aventi i cani come protagonisti o semplici comprimari, non va vista solo sotto il profilo artistico ma come contributo fondamentale per gli studiosi cinofili in quanto documentano nel tempo l’origine, l’evoluzione e lo sviluppo delle diverse razze e dei ruoli loro affidati.

 

Alla luce di quanto visto, agli occhi degli estimatori di questo animale, risulterà quantomeno singolare trovare affissi in musei, palazzi, chiese, cartelli raffiguranti un divieto di ingresso ai cani recante “ Io non posso entrare”. La storia e l’arte contravvengono a questo divieto perché i cani sono già entrati, raffigurati e raccontati indissolubilmente alla raffigurazione dell’uomo.

 

“Io non posso entrare? … noi siamo già dentro!”

 

  

Bibliografia

• Cani al museo – Ministero per i Beni e le Attività Culturali

• Cani da Museo – a cura di Isabella Reale

• Il Cane di Maometto – a cura di Fabio Zanello

• Dogs – Raymond e Lorna Coppinger

• Storia sociale dei Cani – Susan Mc Hugh

• San Guinefort, il Santo Levriero – www.levrieristilatollara.it

 

 

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